Hannah Arendt- Margarethe von Trotta- Barbara Sukowa: una terna perfetta per un film compatto, intelligente e asciutto, formalmente ed ideologicamente ineccepibile e, vivaddio, necessario. La regista tedesca, nota soprattutto per l’ormai proverbiale “Anni di piombo” (1981, Leone d’oro a Venezia, sulla banda Baader Meinhof e il terrorismo), con l’allora giovane Sukowa, prosegue il suo discorso politico e cinematografico con “Hannah Arendt”, la studiosa, filosofa e docente tedesca/ebrea morta nel 1975, vissuta in America, sposata con un professore. Con rigore storico ed introspettivo, senza nulla concedere a divagazioni spettacolari, agiografia e sentimentalismi, ne delinea l’affascinante e superba statura di donna straordinaria e risoluta sia nel suo ruolo pubblico e professionale, sia in quello privato. Tratteggiandone con grande sensibilità e partecipazione il legame e l’intesa intellettuale col marito, i suoi improvvisi tuffi nel passato, senza recriminazioni o nostalgie, in modo assolutamente essenziale. Come è del rapporto privilegiato col suo docente universitario e filosofo Heidegger, di cui fu allieva prediletta, con il quale pare ci sia stata una relazione sentimentale, alla quale la von Trotta allude molto discretamente, senza indulgere in particolari: sequenze veloci e incisive, quasi accennate, come pure quella di un incontro con Heidegger già vecchio, che vorrebbe rinverdire quegli anni. Seccamente Hannah gli dice che lei lo ha incontrato solo per salutarlo; la regista lascia presumere per esorcizzare certi “rimorsi” circa il suo sodalizio col filosofo filonazista. Ad una amica che, in una conversazione, le chiede se per caso lui non sia stato il vero amore della sua vita, solo un attimo di esitazione: ferma e decisa risponde di no, che il marito è stato il suo unico, vero amore. Con lo stesso rigore, la stessa intensità e sincerità la regista ha colto uno degli aspetti più importanti della personalità e della vita della Arendt, l’amicizia: con il carissimo amico di gioventù Kurt, che va regolarmente a trovare in Israele; con gli amici di tutti i giorni, riuniti spesso in casa; con la sua segretaria Lotte, alla quale confessa che non avrebbe avuto un così bel rapporto neppure con una figlia per essere il rapporto di amicizia una cosa meravigliosa. Nel 1959 la Arendt pubblica “L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing”. Nel suo “Nathan il saggio” G.E.Lessing (1729-1781) ribadisce a più riprese “Dobbiamo essere amici”; il nodo tematico del libro è “Basta essere un uomo”: l’uomo migliore è quello più “compassionevole” (capace del sentimento della pietà). Per Lessing come per la Arendt è nell’amicizia che si attesta la vera umanità. Ciò che colpisce nel film è proprio il senso della humanitas di questa donna ed intellettuale, l’adesione completa all’individuo come espressione del sociale, quindi, alla realtà; l’humanitas e l’amicizia come l’unico modo per umanizzare il mondo. Per non dimenticare i crimini dell’umanità tra cui la Shoa, il male assoluto. Del 1968 è la raccolta “Men in Dark Time” (traduz. inglese di “Menschlichkeit in finsteren Zeiten”, pubblicato nel 1960), di fatto un suo personale “libro degli amici”, dei saggi dedicati a scrittori, poeti, filosofi vissuti o precipitati in quei “tempi bui” di cui Brecht in una delle sue più belle liriche (“A coloro che verranno”: Davvero, vivo in tempi bui!); tra gli amici, oltre a Brecht, si annoverano Benjamin, Broch, Heidegger, Kafka, Jaspers. Parte centrale del film è il processo Eichmann, iniziato nel 1961, cui la Arendt assisterà come inviata del New Yorker, ad Israele (“come è bella…quanto mi manca” dice al suo arrivo). La von Trotta utilizza filmati dell’epoca, perfettamente integrati e amalgamati alle sequenze da non far avvertire lo stacco. Il caso Eichmann avvolge e coinvolge l’atmosfera del film senza “disturbare” gli aspetti e i sentimenti privati, una cartina di tornasole per rimarcare la inevitabile coincidenza o corrispondenza del privato-politico e viceversa. Un messaggio ancora attuale: il privato è politico. Tornata in America con chili di fascicoli del processo, si immerge a capo fitto in essi per studiare e capire l’uomo, le accuse e gli accusatori. Nel 1963 scoppiò il caso Eichmann-Arendt a seguito di articoli, prima, della pubblicazione del suo libro, dopo, che suscitarono reazioni e attacchi alla ebrea fedigrafa per aver rinnegato la sua fede e il suo popolo, per aver preso le difese del criminale. “Lei mi chiede se sono tedesca o ebrea. Per essere onesta, devo dire che da un punto di vista individuale e personale, la cosa mi è del tutto indifferente[…]; sul piano politico, parlerò sempre soltanto a nome degli ebrei, in quanto sono costretta dalle circostanze a esibire la mia nazionalità”. Rifiutata dai colleghi di corso, invitata dal consiglio accademico a dimettersi dall’insegnamento, resiste agli attacchi, non cede, continua a far lezione ai suoi allievi (una insegnante incredibilmente moderna, energetica e funzionale, una meraviglia!); in aula magna, di fronte a studenti e docenti, spiega le sue tesi, confuta quelle dei giudici di Eichmann. Il quale, sostiene la Arendt, “era incapace di pensare”, plagiato dal senso del dovere e quindi “un esecutore meccanico e incosciente” degli ordini; insomma, non responsabile individualmente dei crimini nei lager, sicuramente imputabili a più persone. Quando apprende della condanna (all’impiccagione) esclama: “Sono contenta”, lasciando sottintendere più della esemplarità della sentenza che non della giustizia ad personam. La von Trotta è molto attenta a non cancellare il discrimine tra pensiero critico e ambiguità, mantenendosi “dritta” sulla giusta linea della Arendt. Coadiuvata dalla magnifica interpretazione della Barbara Sukowa, dalla dura e al tempo stesso umanissima espressività, pensosa e dubbiosa, mai distratta, perfettamente nel ruolo; un’interpretazione sostenuta da intelligenza professionale e sentimento politico, presumibilmente in sintonia con la regista nella condivisione del pensiero della Arendt (abbiamo avuto modo di apprezzare il suo talento anche in teatro, a Parigi, nel ruolo di Polly nell’edizione francese de “L’Opera da tre soldi” di Brecht-Strehler,1986). Il film si conclude nel salotto di casa, con un dialogo sommesso con un’amica e un primo piano della Arendt-Sukowa in cui si legge il travaglio di un pensiero forte, l’opprimente ricordo di chi è stato emarginato, perseguitato ed escluso; lo scotto della visibilità pubblica, la barbarie della civiltà occidentale (la Germania hitleriana), la luce dei suoi acclamati valori: ragione, verità, umanità. Soprattutto il rifiuto di rigide contrapposizioni.
“Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla Germania a un’età relativamente giovane, è perché desidero prevenire alcuni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità.[..] Ritengo che la sola risposta adeguata alla domanda <Chi sei?> fosse: <Un’ebrea>. Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione. […] Dicendo <Un’ ebrea>, non riconoscevo altro che un fatto politico…” (Hannah Arendt).
P.S. Tale Francesca Recchia Luciani (non conosciamo), sulle pagine del web, distrugge il film e la von Trotta. La sua critica è in stile “Fatto Quotidiano” e autori –Scansi, Travaglio- supponenti e strafottenti, nipoti imbecilli di Zarathustra, ai quali, senza colpo ferire, associamo la signora.
Giorgio Maulucci