BELLO DA MORIRE
Abbiamo rivisto ieri sera (in televisione) “Morte a Venezia”(1971) di L. Visconti. Pregevole film estetico-letterario; grande lezione sul Decadentismo europeo che solo un regista sensibile, di raffinata e profonda cultura quale è stato – e rimane – Visconti poteva realizzare (per non parlare di un altro suo capolavoro, “Ludwig”, recentemente trasmesso). Fedele e insieme personale trasposizione de “La morte a Venezia ”, il lungo racconto (più che romanzo) scritto da T.Mann nel 1912. Ci chiediamo ancora oggi perché Visconti abbia tolto al titolo originario l’articolo (ted. Der), che determina la morte, appunto, trattandosi di una morte “estetica” e non accidentale. Rivedendo il film ci è tornato alla mente uno degli intellettuali, poeti e artisti contemporanei più arguti ed intelligenti, Guido Ceronetti, del quale recentemente abbiamo letto un articolo per noi confortante e al tempo stesso disarmante: Confessione di uno scrittore semifallito sul degenerare della lingua. “Com’è possibile che importanti giornali seguitino a traslitterare la notissima parola araba al-qàida (la Base), come al-Qaèda, che è pronuncia perfettamente folle?….La perdita di lingua, spregevolmente prostituita all’angloamericano, resa astrazione immonda dall’abbandono della scrittura manuale….”(La Repubblica, 13.07.14). Nella nostra modestia e piccolezza ci siamo ritrovati in pieno in quell’articolo, almeno nell’essere additati come falliti (idest rincoglioniti) solo perché non ci inchiniamo adoranti alle nuove pratiche della imperante tecnologia, alla maleducazione nonché alle indecenze o licenziosità linguistiche oramai consentite a vasto raggio. Dello stesso autore custodiamo gelosamente una preziosa traduzione dei Carmi di Catullo (Einaudi, Millenni, 1969); rileggiamo ogni volta con rinnovato stupore “Le ballate dell’angelo ferito” (2009) in cui egli attinge ad un linguaggio forte, incisivo e drammatico con la scanzonata disinvoltura di un moderno cantastorie o artista di strada. Abbiamo altresì riletto due brevi “cartoline” di/su Venezia nel delizioso libro “Albergo Italia”(Einaudi, 1985), una serie di osservazioni critiche di un Ceronetti stravagante viaggiatore nell’Italia degli anni ’80. La prima “cartolina” si intitola Venezia, lasciar morire, l’altra Per Venezia si paga a proposito della tassa richiesta ai turisti per entrare-visitare la città, da imputarsi all’ingordigia del comune; da esigersi per legge del contrappasso da altre città. “E sia! Si paghi, si paghi sempre più per un’ora con Venezia; ma che poi Venezia risputi un po’ di quel che ha ingoiato in cambio dei suoi estremi favori, in una inuguagliabile e mirifica giostra vendicativa di pedaggi”. D’altra parte pur di visitarla tutti sono disposti a pagare il pedaggio a qualsiasi prezzo. Perché è certo che a Venezia “ogni disagio è reputato un godere… Altro che Morte a Venezia, caro Thomas! Non ha prezzo, l’immortalità! Il sindaco di Venezia potrebbe tranquillamente portare la tassa, fin da ora, a centomila; nessuno tornerebbe indietro”. Venezia, dunque, è carissima sotto ogni aspetto, ma è magica al punto da esercitare “il sortilegio angelico di una bellezza corrosa, infangata, arcidecadente, la potenza di miracolo che arcanamente ancora emana ….che ingannasse la morte con un abbandono di ogni momento alla felicità di vivere….E’ evidente che deve essere lasciata morire”. Se, infatti, fosse risanata, restaurata, salvata “perderebbe il suo potere catartico…e allora, sopravviverebbe ingiustamente”. Ceronetti individua la morte a/di Venezia nei suoi abitanti, nei cittadini ai quali soltanto “è dato il ricordarsi di morire, di conoscerci l’infelicità di vivere, di camparci senza illusioni, di cercare altrove qualcosa fuori del mondo”. Chi ha visto il film di Visconti ricorderà lo spasimo provocato dal bellissimo finale: la figura dell’efebico Tadzio dalla riva si addentra nell’acqua, quasi sfiorandola; volgendosi misteriosamente nel suo lento incedere, mano sul fianco, verso il professore già agonizzante su una sdraio, si arresta sollevando il braccio ad indicare con l’indice il cielo. Il corpo del professor von schenbach si disfa fino alla dissoluzione, folgorato dall’efebica visione; per morire in bellezza. Visconti, senz’altro memore di un bellissimo ipinto e manifesto dello stile “Jugend”(Giovane), compone un quadro vivente. Il dipinto rappresenta un adolescente nudo, dal corpo flessuoso (“floreale”, come lo stile detto anche Liberty), nel mezzo di un’ampia distesa brulla, nell’atto di sollevare le braccia verso il cielo solcato dal passaggio di bianchi aironi. La “riproduzione” che ne fa il regista è perfetta. Tadzio è “indicibile”, inafferrabile come la Bellezza: bisbiglia poche parole in lingua polacca –lingua incomprensibile- e così pure la madre, un’algida, regale e splendida Silvana Mangano, equivalente femminile dell’ Oltreuomo nicciano. Visconti è culturalmente, intimamente abbastanza decadente per non lasciar trapelare che la Bellezza matura all’ombra del laido, del peccaminoso. Lo ricorda l’amico-assistente di Aschenbach (nel film il musicista G.Mahler), che gli rinfaccia il suo (ipocrita) rigore morale, il suo voler amare soltanto l’idea della bellezza; che non ha né corpo né colore, nulla che ricordi il corpo. Le stesse metafore sull’amore intellettuale di cui è pieno il Fedro di Platone, tra le più forti e ambiguamente ardite, rimandano a qualsiasi tipo di amore. ”…Giacché devi sapere che noi poeti non possiamo percorrere il cammino della bellezza senza che Eros ci accompagni e diventi la nostra guida….siamo tuttavia come le donne, poiché la passione è il nostro innalzamento, e amore deve rimanere il nostro anelito….questa è la nostra gioia e la nostra vergogna. Lo vedi adesso, che noi poeti…dobbiamo necessariamente errare, necessariamente essere dissoluti, avventurieri del sentimento….L’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte è un’impresa arrischiata che bisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istinto incorreggibile e naturale è attratto verso l’abisso?”. Thomas Mann cita (tra virgolette e più ampiamente) questo brano del Fedro, cui Aschenbach ripensa mentre “le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole staccate del discorso che il suo cervello intorpidito compone con la strana logica del sogno”; prima del suo ultimo, spasmodico inseguimento della Bellezza. La quale produce un’azione violenta, di annientamento. Nietzsche lo ha decretato inesorabilmente: la violenza è insita, endemica all’opera d’arte. La potenza artistica e letteraria di Dostoevskij, ad esempio, è estremamente violenta tanto che T. Mann raccomandava: “Dostoevskij, con misura” ! Pertanto ogni artista aspira inconsciamente alla morte ( la stessa scrittura è una forma di rispecchiamento suicida). “Nulla è il bello / se non l’emergenza del tremendo [ Denn das Schoene ist nicht / als des Schrecklichen Anfang…]” (E. M. Rilke, Elegie duinesi, Prima). Il pregio del film sta nel farsi leggere come una delle pagine più dense e intelligenti del Decadentismo europeo; una delle più folgoranti dell’estetica/estetismo di quel periodo. Anche nell’aver assimilato il personaggio di Aschenbach a G. Mahler, di cui Visconti ha utilizzato lo Adagietto della Quinta Sinfonia come leit-motiv del film (e Mahler diventò popolare, evviva!), ma ancor più il 4° movimento (misterioso) e il 5° della Terza Sinfonia, con il bellissimo “Canto del nottambulo” (da Così parlò Zaratusthra, Nietzsche). “Uomo! Fai attenzione! / Che cosa dice la profonda mezzanotte?…/Il mondo è profondo… Profondo è il suo dolore… Dolore dice: Perisci! / Ma ogni gioia vuole eternità, / vuole profonda, profonda eternità”. Il dolore esige la cessazione dello stesso. L’essenza della vita, per Nietzsche, sono il dolore e la gioia, inscindibili. Quando si è raggiunta la felicità cioè la Bellezza, si muore. Il bellissimo canto (lied) si dispiega a mo’ di una nenia, triste preludio alla morte di Aschenbach. Non è un caso che T. Mann abbia scelto Venezia per la morte dell’esteta decadente. Nella sua “bellezza corrosa, arcidecadente” Venezia è una città mortuaria. Perché ”….non è soltanto un mare di colla del melenso. Attira tutto, perfino il bello; addirittura, a volte, lo spirituale, il predestinato” (G. Ceronetti). Non a caso nel racconto di T. Mann (e nel film) il manifestarsi dell’attrazione erotica del professore per il giovane efebo polacco, coincide con il manifestarsi del colera a Venezia. L’atmosfera, il clima del film è perfettamente consonante al gusto estenuato di un’epoca culturalmente e socialmente ripiegata su se stessa, in cui si percepisce la perdita dei valori; per Musil le “qualità” (L’uomo senza qualità). Crisi di valori, dunque, che comporta la perdita di sé. Venezia, Aschenbach, la morte sono le spie della perdita di identità, o meglio di un’identità senza o fuori del tempo. Di una autodistruzione inarrestabile. Simile a quella descritta nel “Satirycon” da Petronio, autore dell’età della decadenza romana (I sec. d.C.). Congenita all’eterno “decadimento” di Venezia. Con la dovuta cautela non possiamo non vedere analogie e rispecchiamenti nella decadenza “globale” che stiamo attualmente vivendo. Della morte della bellezza o dell’arte. Che per Hegel significava la morte dell’arte classica/greca, impossibile da ripristinare. Per noi può significare la morte d’un tempo in cui si credeva ancora nel potere salvifico del bello. La consapevolezza che oggi, al contrario, la bellezza è una sopravissuta. Secondo Ceronetti “sopravviverebbe ingiustamente”.
Giorgio Maulucci
Tags: Alessandro Cozzolino, bello da morire, decadentismo, Giorgio Maulucci
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