DANTE, “COMICO” DELL’ ARTE POETICA
Ricorrono i settecentocinquant’anni dalla nascita del sommo poeta (1265-1321). In un modo o nell’altro quell’Italia da lui definita “serva” –che ancora è “in una selva oscura!- cerca di celebrarlo alla meglio, asservita com’è alla corruzione dilagante e ai poteri d’ogni risma. Italia dei dis-valori o dei valori sommersi o dei massimi valori (artistici, culturali, paesaggistici e che altro?) defraudati e deprezzati. Dove, se capita, accade di ricordarsi pure delle antiche glorie. Benigni, tornato alla carica con Dante (su Rai5 e altrove, live), a dire il vero comincia a stuccare. Gli riconosciamo il merito divulgativo ed anche attualizzante, ma non abbiamo mai sostenuto il tono e lo spirito inadeguatamente “comico” delle sue letture-interpretazioni, da commedia aristofanesca più che dantesca. In Dante, infatti, il comico riguarda lo stile, popolare sì ma non ridanciano pur non mancando al poeta una sottile, talvolta amara ironia. Una ventina di anni fa, prima del clamoroso successo di Benigni, avevamo avuto l’occasione di ascoltare la lettura pubblica di tutto il Paradiso per la voce di Vittorio Sermonti, a Roma (mese di luglio, al Pantheon, un canto ogni pomeriggio), poi, una sera, a Milano ( S.Maria delle Grazie). Sermonti non è un attore, ma il pubblico rimase affascinato dalla sua lettura tra il filologico ed il popolare, lontana da ogni effetto spettacolare. Una lettura sapientemente straniata, quindi, critica e trasparente, a suo modo interpretativa. Personalmente, la preferimmo alle successive letture performantive di Benigni. Sera fa, su Rai5, abbiamo avuto il piacere di seguire il bel concerto diretto da Nicola Piovani dedicato alla “Vita Nova” di Dante, musica dello stesso Piovani, per voce recitante (Elio Germano) e soprano. Qualcosa di raffinato e musicalmente significativo avendo saputo il compositore accordare, sapientemente ed elegantemente, il ritmo e l’andamento lirico dei versi con quello delle note e del canto. Del resto, è alquanto singolare la sorte della poesia italiana circa la cesura tra parola e musica, lirica e canto, una tradizione interrottasi con il tramonto dei trovatori come sottolineava egregiamente, nelle sue lezioni di Filologia romanza, l’insigne Aurelio Roncaglia (Univ. La Sapienza, Roma). Plaudiamo ad Elio Germano, passato da Leopardi a Dante con eguale disinvoltura attoriale e bravura, di buon auspicio per le sorti del teatro e del cinema italiano. Ci sentiamo, infatti, piacevolmente sorpresi nonché risarciti nel constatare che registi, attori ed autori tendano sempre più frequentemente a recuperare i nostri grandi classici quasi ad avvertirci che oramai la cosiddetta originalità è un concetto superato. Lo aveva già capito Leopardi: i moderni possono dirsi originali unicamente nel sapersi misurare modernamente con i grandi modelli del passato (i classici), di per sé insuperabilmente moderni e contemporanei, la vera “avanguardia”. L’originalità intesa come creazione dal nulla, quindi, “geniale” è un concetto romantico, che non può né deve pretendersi alla lettera nell’età della globalizzazione, di internet e marchingegni vari (!). Probabilmente, si sta accusando l’esaurimento delle idee, la difficoltà di “creare” e, di conseguenza, la necessità di tornare all’antico per riaffermare il progresso o processo evolutivo dell’arte o della cultura. Leopardi (Martone), Basile (Garrone), Boccaccio (Taviani), Omero (Odyssey, Bob Wilson, Iliade, mito e guerra, S. Scherini), Virgilio brucia (S.Derai); Shakespeare (Winter’s Tale, D. Donnellan), irrinunciabile: con Dante rappresenta l’infinitamente moderno. Entrambi sublimi e popolari, secolari ed universali; la “bibbia” dell’evo moderno e contemporaneo. Entrambi li puoi insegnare, rappresentare, leggere, ascoltare, musicare in ogni dove con gli strumenti, i mezzi, le risorse più rudimentali e quelli più elevati e/o sofisticati. Shakespeare, per natura e costituzione, è squisitamente teatrale; Dante lo è per dimensione e propensione. La sua Commedia è una grande commedia umana. Commedia degli errori, degli equivoci, dell’amore, dell’onore e del disonore. Del sacro e del profano, del tragico e del comico di cui è condita la vita. Della fede senz’altro, ma soprattutto della gioia e del dolore. Un poeta e “drammaturgo” a tre dimensioni: autore, regista, attore. La scuola lo ha sempre proposto, invece, ad una sola dimensione: l’autore, padre del volgare italiano, colui che ha magnificato Beatrice etc. Insomma, una specie di sintesi dei luoghi comuni pur se di pregio. Voltaire scrisse che la Commedia si potrebbe compendiare in una cinquantina di versi o poco più facendo un collage delle terzine o dei versi più folgoranti (es. “e lascia pur grattar dov’è la rogna”), che basterebbero a rendere l’idea.
Dante è stato ampiamente saccheggiato dal cinema, dal muto fino agli anni ’90 (M. de Olivera, A divina Comédia; Greenaway, Dante, Inferno I-VIII) e 2000 (S. Meredith, Dante’s Inferno, 2007); in anni recenti è stato realizzato un musical (purtroppo non in stile Broadway), praticamente, ovunque e da chiunque. Una delle utilizzazioni più toccanti, letterariamente ed artisticamente più significative rimane “La divina mimesis” di P.P.Pasolini, purtroppo incompiuta. Un dagherrotipo suggestivo e oltremodo illuminante sulla non presunta attualità e teatralità di Dante. In effetti, quel che meno frequentemente viene evidenziato è lo straordinario senso teatrale che l’Alighieri ha della scena. La sua Commedia è la storia ideale della sua anima “ritratta in un dramma a molti personaggi”(A.Momigliano), una vera e propria drammaturgia, non solo una graduale rappresentazione per stazioni secondo la consuetudine medioevale. Che, però, il poeta utilizza genialmente come teatro “circolare” per i cambiamenti di scena (da un cerchio o girone all’altro), nel teatro moderno e contemporaneo riproposti con i palcoscenici meccanizzati. Il deambulatorio ovvero il coro della cattedrale, il carro dei misteri sacri, l’area circolare intorno al lettore di Terenzio e di Seneca funzionavano, allora, come funzionano, oggi, i nostri palcoscenici. Ed è proprio in/su palcoscenici del genere, cioè aree delimitate, sceniche, che Dante vede svolgersi il susseguirsi degli atti e delle scene della Commedia. Ed è in un tale contesto che si inserisce e si giustifica il ben noto “contrappasso”, di fatto la sceneggiatura e l’espediente scenografico dell’Inferno e del Purgatorio. Nel senso che la pena è parte integrante dello scenario, il filo rosso o conduttore del “male di vivere”. La folla dei peccatori, le loro pene diversificate costituiscono il “coro” dell’episodio che finisce col dare ad esso una unità scenica e morale. Dante mutua il termine da Aristotele (antipeponthòs, contropatimento), ripreso da S. Tommaso (contrapassum) in senso cristiano (giustizia-punizione divina), attingendo con estrema originalità ad un suo quasi contemporaneo (mezzo secolo prima), tale Cesario di Heisterbach (Dialogus miracolorum) in cui, ad esempio, l’usuraio, dopo la morte è condannato in eterno a star seduto sul fuoco così come, in vita, è stato seduto ad aspettare i debitori che lo pagassero; l’avvocato è trasformato in vacca per aver pascolato i beni dei clienti e così via. Dante seguirà un suo percorso superando il concetto ed il senso letterale sia delle colpe sia delle punizioni e, quindi, ogni automatismo o prescrizione aristotelico-tomistica. Tanto è vero che userà il termine una sola volta in tutta la Commedia, nel caso di Bertran dal Bornio, punito individualmente del delitto da lui commesso (come Francesca da Rimini) rispetto a tutti gli altri peccatori, coralmente puniti per lo stesso peccato: “…perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro…./ Così si osserva in me lo contrappasso” (Inf. XXVIII, 142). Questo chiarisce che la legge del contrappasso non è un principio base della struttura del poema, una legge costante avendo inteso Dante, invece, impiegare scenograficamente la tesi di Cesario di Heisterbach per tutti i gironi e cerchi dei dannati e dei purganti. Un espediente teatrale, dunque, mediante il quale Dante veicola un messaggio morale e perché no? ideologico. Reinventando drammaticamente (teatralmente) il contrappasso rispetto alle sue fonti (Aristotele, S.Tommaso, Cesario) interessato com’è a piazzare ogni figura contro uno sfondo ed un coro che configurino lo scenario in cui si svolge la scena (il coro dei Fraudolenti nel caso di Bertran da Born, i Lussuriosi di Francesca etc.). Si pensi soltanto al modo assolutamente teatrale con cui gli attori Farinata degli Uberti o il Conte Ugolino entrano in scena presentando il personaggio “a viso scoperto”, e con loro lo stesso autore-attore, regista e scenografo, secondo una tecnica teatrale incredibilmente moderna e funzionale alla scena nonché al pubblico. Nel Paradiso lo spazio scenico si fa più arioso, l’Empireo è un immenso palcoscenico dove il coro e gli attori si identificano: è il teatro in cui si presenta tutta l’umanità (come nell’ultimo capitolo di “Amerika” di Kafka).
Se tutta la Commedia non fosse dramma e spettacolo come realmente è, con i continui passaggi da una scena all’altra, la visione finale non arriverebbe al pubblico-lettore con l’immediatezza e la suggestione con cui viene percepita. Ciò accade in virtù del fatto che per quanto nel Paradiso l’atmosfera si faccia sempre più spirituale e rarefatta, non viene mai meno l’actio (l’azione) ovvero la cosa vista ed udita. Per tale ragione, probabilmente, Voltaire dubita che l’opera debba definirsi “poema” termine, peraltro, anch’esso usato una sola volta nella Commedia (“Se mai continga che ‘l poema sacro”, Par. XXV, v.1) quasi a volere l’autore implicitamente confermare il carattere “drammatico” più che “poietico” della Commedia. Che, infatti, non sta a designare il genere specifico, bensì la sua particolarissima avventura: “la mia comedìa” (“Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura”, Inf. XXI, v.2); “questa comedìa” (“….e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro”, Inf. XVI, 127-28). Insomma, Voltaire vuole dirci (Dictionnaire philosophique) che la definizione di poema è andata delineandosi per gradi, insospettatamente, non prima di arrivare (!) al Paradiso; che la Commedia è opera di genere “drammatico”. Una commedia umana che riflette la personale esperienza dell’autore, che procede dal basso di “una selva oscura” (la vita) verso l’alto dei cieli stellati (il riscatto e la conquista del bene). In definitiva, una “poetica narratio”, una rappresentazione in forma di poesia. Ribadiamo: molto teatrale.
Giorgio Maulucci
Tags: Alessandro Cozzolino, Dante, Elio Germano, Giorgio Maulucci, Nicola Piovani
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