NO MOMMY
Ancora una volta ci dispiace, ma siamo stanchi di stare ai “giochi” del Festival di Cannes, che da qualche anno premia film discutibili con la pretesa di spacciarli per capolavori, per di più noiosi, pretestuosi o virtuosistici; d’avanguardia superata da un pezzo. Così è stato per la “Vita di Adele” (Abdel Kechiche, Palma d’oro 2013), “Due giorni, una notte” (Fratelli Dardenne, Premio della critica 2014), ed ora per “Mommy” (Premio della Giuria 2014), per il quale si urla al miracolo del venticinquenne regista prodigio Xavier Dolan. Largo ai giovani, sempre, ma attenzione a non considerarli prematuramente più maestri dei grandi maestri del cinema. A proposito delle onorificenze elargite a Cannes, non capiamo come mai “Winter sleep” del turco Ceylan (Palma d’oro 2014) anch’esso sostenuto (tre ore buone) ma, vivaddio, di pregio, sia stato sottratto al pubblico dopo appena due settimane di programmazione a Roma (una settimana al Nuovo Sacher, un’altra al Greenwich), negato ai circuiti della provincia, sparito dalla circolazione: complimenti alla distribuzione! Un film bellissimo, senza effetti sensazionali ma “socialmente utile”, intenso ed emozionante. A differenza di “Mommy”, che punta alla pancia e anche più sotto (per il peso) e perciò riservato ai palati assuefatti alle spezie e pietanze grasse. L’argomento del film è decisamente forte, una forza, però, di muscoli anziché di testa; artefatta e non d’arte. Un figlio disadattato, caratteriale e violento, psicopatico, dimesso da un istituto di rieducazione per aver dato fuoco alla cucina; scaricato alla madre a sua volta davvero non esemplare, ma pur sempre madre. A mala pena riesce a gestirlo tra colluttazioni, morbose riconciliazioni (non va esclusa una propensione incestuosa), parolacce. Non che ci scandalizzino i “cazzo” e “vaffanculo”, ma riteniamo ingiustificato certo linguaggio ostentatamente trasgressivo o ribellistico quando altro non è se non uno spasmodico esibizionismo (vedi, per altro tema, “Vita di Adele”). Una dirimpettaia, insegnante in congedo sabbatico, con problemi di balbuzie, “donna angelo” che appare come discesa dal cielo a tutela dei due “demòni” (avrà mai pensato a Dostoevskij il geniale regista?!), con famiglia disorganica e alienante, riesce ad entrare nelle grazie del giovane; quasi lo soggioga pedagogicamente e, chissà, anche sentimentalmente o eroticamente. Si susseguono altri danni e malefatte ad opera del giovanotto culminanti in una gita-premio fuori città del singolare trio (madre, figlio ed angelo custode), di fatto un viaggio di ritorno e riconsegna del soggetto ad un altro istituto di riabilitazione. Arrivati a destinazione il giovane se ne avvede, tenta di scappare, gli infermieri lo raggiungono, uno di loro sta per rimetterci le penne, lui viene momentaneamente tramortito. Disperazione, orrore e contrizione materne (le due donne); il giovane viene internato; intermezzo estenuante e prolungato dopo l’accaduto, con le due donne a colloquio: la madre maschera il senso di colpa dichiarandosi a posto con la sua coscienza, l’angelo custode le comunica a sorpresa di trasferirsi con famiglia altrove (chiaramente è una fuga); crisi isterica della mommy ovvero scena madre a prova d’attrice e finalmente il sofferto (per l’attesa) finale. Istituto di contenzione; il giovane con camicia di forza tra due infermieri, uno dei quali gli regge il cellulare (telefonata di pentimento e scuse); nella sequenza successiva lo “slacciano”, fuga a gambe levate del medesimo verso l’ignoto, fine della storia. Il tutto girato secondo gli schemi del rocambolesco che più rocambolesco non si può, di giochi pirotecnici e di prestigio della macchina da presa e ghiribizzi vari; insomma, di effetti d’ogni genere, da quelli di una sceneggiatura tanto “arrabbiata” quanto scontata a quelli psicodrammatici, a scelta tra Lombroso, Freud e forse Jung. Per fortuna, il sollievo di una colonna sonora piacevole e ammiccante. Ma la cosa più disarmante è la trovata della riduzione formato “selfy” del quadro-campo visivo: un rettangolo in verticale tipo finestra per quasi l’intera proiezione (due ore e mezza), che nelle situazioni che sembrano preludere al riscatto e alla felice risoluzione della vicenda, si slarga lentamente fino a recuperare il formato regolare dello schermo, per restringersi di nuovo al riproporsi della tragedia. Alcune critiche ci hanno ridicolmente ricamato sopra percependolo come un portento di invenzione filmica dai risvolti psico-vattene a pesca. Ci siamo chiesti se la giuria di Cannes abbia premiato il regista per questa incredibile (puerile) trovata. E dire che siamo abituati ad ogni genere di avanguardia e novità. Recentemente abbiamo avuto la fortuna di vedere due spettacoli veramente sensazionali ed artisticamente scioccanti nel senso della innovazione ed inventiva creativa; parliamo del “Fidelio” alla Scala, di Eduardo riletto da Latella (Natale in casa Cupiello), che ci hanno commosso e stupito per la forza non già “muscolare”, ma intellettuale e poetica, per il riverbero problematico, drammaticamente sociale e indubbiamente attuale. Quando gli azzardi sono davvero un potente, geniale azzardo, entrano di diritto a far parte dell’arte del XXI secolo. Ma da film del genere che cosa dobbiamo ricavare? Prendere semplicemente atto o coscienza del pauroso, incalcolabile disagio dei giovani, del disastro delle famiglie e del disagio o impotenza ancor più disastrosi dei genitori? Per non parlare della scuola e delle strutture sanitarie. Abbiamo bisogno che tutto ciò sia servito in salsa iperspettacolare con effetti speciali? Cui prodest? “Francamente me ne infischio”! Preferiamo il sangue a profusione di Tarantino, è più istruttivo e corroborante. Oppure, a proposito del rapporto genitori-figli, l’Eduardo “nero” di Latella. Stando al film, ce lo ricordiamo “Gloria-Una sera d’estate” di J. Cassavetes ? “I quattrocento colpi” di Truffaut, “I figli della violenza” (Los olvidados) di Bunuel ? Basta essere giovani o giovanissimi tecnicamente “spericolati” e mentalmente masturbanti per superare modelli insuperabili? Si dirà che i tempi sono cambiati; è vero, ma si abbia il coraggio di ammettere che spesso trattasi di esperimenti o cambiamenti effimeri, destinati cioè a non essere convalidati dalla durata nel tempo. Il cinema come il teatro sono un “gioco” d’azzardo assai pericoloso (il termine inglese, francese, tedesco “giocare” vale indifferentemente anche “recitare”, fare spettacolo), le cui regole bisogna conoscere molto bene e perciò guai a barare.
Tags: Giorgio Maulucci, no mommy
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