“NON MI ABBRACCIARE”: LA PASSIONE SECONDO ELENA VENDITTI

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(La Feltrinelli, 23 luglio, ore 18.30, presente l’autrice)

cop.aspx“Domattina cosa farò? Dove sarò a quest’ora? Quando sentirò Livio? Lo sentirò ancora? Forse mai più. Come farò senza i suoi occhi, il suo viso, il suo abbraccio? Ma a lui gli abbracci non piacciono. Non ama farsi abbracciare. Nemmeno da me”. Siamo alle prime pagine del bel romanzo-documento di Elena Venditti, “Non mi abbracciare” (Aliberti Wingsbert House ediz., 2015), prefazione di Aldo Cazzullo, postfazione di Luca Telese. Con una nota “epigrammatica” di Mariella Venditti (la sorella), che riassume, in certo senso il libro e mette a fuoco il personaggio. “Mia sorella a diciannove anni cominciò a farsela con i fasci, diventò fascista. Per gioco, per sfida, per bisogno di esserci oltre che di apparire. ‘Voglio passare alla storia’, era questo il suo chiodo fisso nei nostri giochi da ragazzine, ed è passata invece a una brutta storia” (M.V.).Una famiglia, i Venditti, comunista da sempre, il padre giornalista de l’Unità, poi di Paese Sera, comunista di ferro. Militante comunista la figlia Elena, FGC annessi e connessi, manifestazioni, botte dai fascisti etc. Dalla sera alla mattina, per amore, improvviso cambiamento di rotta e passaggio dall’altra parte con inevitabile trauma familiare, rifiuto e violente reazioni del padre. Il problematico rapporto con il quale nel romanzo è descritto dolorosamente, con la coscienza di chi sa di avere sbagliato ma anche con il rimpianto di non essere stata “accolta” e, quindi, chissà, salvata? Al padre è dedicato il libro, uscito subito dopo la sua morte (la dedica era stata decisa prima). Un atto liberatorio, supponiamo, che sa di doveroso omaggio o di risarcimento. Commovente, invece, la figura della madre Angela, vorremmo dire un “angelo rosso” per umanità, intelligenza e tolleranza; una madre (e moglie) coraggio ammirevole, politicamente senz’altro costruttiva, in senso ampio. E’ quanto emerge dal racconto, dalle rievocazioni accorate, piene d’amore della figlia Elena, appena velate di nostalgia. Una storia d’amore e di famiglia, da un lato, uno spaccato di storia italiana –gli anni di piombo- dall’altro, che l’autrice domina in virtù di una scrittura essenziale (tacitiana, variatio brevitas), incisiva ed icastica al tempo stesso. “Mi devo sedere perché ho le ginocchia di burro. Stomaco di marmo. Testa gassosa. Quello che dovrebbe essere morbido ed elastico nel mio organismo è di pietra e invece quello che dovrebbe sostenermi è molle come un budino”. Uno stile che incoraggia alla lettura, veloce ed appassionata; un romanzo più “epistolare” che storico. La Venditti, infatti, dopo aver sistemato un coacervo di appunti che si affollavano nella sua mente, riordinati sul filo della ragione e sull’onda del sentimento, ha deciso di scrivere una sorta di diario postumo. Dove di sentimento ce n’è tanto e si avverte quanto possa essere costato alla scrittrice mettersi a nudo dopo molti anni, quando oramai la nostalgia non è più quella di un tempo. Ciò che colpisce è la combinazione di due sintesi, a priori e a posteriori. Un processo inverso a quello del romanzo epistolare del Foscolo (Lettere di Jacopo Ortis), autobiografico, in cui l’autore, ancora molto giovane, anticipa il pensiero ed i contenuti delle opere successive mediante le riflessioni sugli avvenimenti pubblici e privati del suo presente. La Venditti anticipa e posticipa il passato-presente mescolandolo in una specie di “flusso della coscienza”. Infatti, a volere insistere nei rimandi letterari (presumiamo onorevoli!), non esitiamo a riscontrare un barlume di monologo interiore, di epifanie; una sorta di “Finnegans Wake” (Finnegan, eroe settecentesco, emblema di un’umanità che cade e risorge): una scia, un’orma o traccia (wake) scavata nelle pieghe dell’anima. Nel senso che il passato è un paese straniero dove tutto accade in maniera diversa. Non a caso più di qualche pagina è scritta (stampata) in corsivo a significare l’andata e il ritorno in/da un paese straniero, il riaffiorare improvviso di lampi della memoria; del flusso della coscienza, appunto. Un romanzo bifronte che si configura, peraltro, come una interessante sceneggiatura e/o drammaturgia. Ottocentesco per essere “avventuroso”, avvincente ed intrigante, inevitabilmente novecentesco e contemporaneo, per la tensione a voler cogliere il senso politico ed esistenziale di un vissuto che continua a premere sul presente, introspettivamente e retrospettivamente. La protagonista è una donna battagliera e al tempo stesso indifesa, che ha lottato per una causa persa (col senno del poi, ingiustificata), nella convinzione che avrebbe vinto in nome dell’amore, un amore “così violento, così fragile”, che fa perdere il senso della realtà e delle giuste proporzioni. Dunque, per dirla con Pasolini, passione ed ideologia. Un romanzo di formazione? Anche, se si considera che l’operazione di Elena Venditti implica la onesta voglia di ricomporre il suo vissuto alla luce di una riflessione intima e personale quanto si vuole, ma anche socialmente e politicamente utile, in ogni senso. Di dichiarare la consapevolezza ora amara ora disincantata che dolori profondi, esperienze che ti hanno segnato vogliono, quando vogliono, la consolazione di un momento, ma  non sopportano la mortificazione del conforto. Lo si deduce dalle circa trecento pagine di “Non mi abbracciare”, espressione che potremmo ribaltare in “Non mi consolare”. No, l’autrice non cerca consolazione perché, oggi, riconosce di aver sbagliato e perciò ha deciso di esporsi e sottoporsi a critica ed autocritica. Nel suo racconto, infatti, procede decisa e spedita nel de-scrivere quelle che potremmo definire le stazioni di una “passione”: ideologica (improvvisamente “deviata”, a destra), d’amore folle e disperato.  Viene in mente l’eroina di “Senso” (più del film di Visconti che della novella omonima di Camillo Boito), la contessa Livia Serpieri, ardente fautrice e collaboratrice dei rivoluzionari risorgimentali, perdutamente innamoratasi dell’ufficiale austriaco Franz Mahler, per il quale tradisce e rinnega la causa. Questi, sull’orlo dell’abisso, rifiuta di abbracciarla gridandole in faccia di non essere, come lei ha creduto, il suo “romantico eroe”. Una mera analogia/coincidenza: anche il brigatista nero (nome d’arte, Livio!) sembra rifuggire, magari inconsciamente, dall’essere un eroe romantico rifiutando di essere abbracciato da Elena. Una confessione politica ed intima al tempo stesso; una riflessione che suona come un monito nell’attuale disorientamento che viviamo ogni giorno, soprattutto per i giovani. Obbligandoci a riflettere sulle maledette, immutabili ed incontrovertibili atrocità perpetuate dal terrorismo di ogni tempo, fino a quello dilagante ed inarrestabile che ci attanaglia ed assedia quotidianamente. Nel libro ci sono degli squarci storici che meritano attenzione come l’arresto e l’assegnazione della giovanissima Elena alla Casa Circondariale di Latina. Siamo negli anni ’70. L’autrice, con rapide pennellate, descrive il disorientamento e il graduale riconoscimento dei luoghi durante il tragitto, a lei molto familiare avendo (i genitori) la casa al Villaggio Giornalisti di Borgo Sabotino. Con ironico distacco descrive l’arrivo e la sistemazione in prigione, lo stato non certo confortevole (anche igienicamente) di essa. Chiede se è possibile avere dei libri, glieli portano, sceglie “L’amante di Lady Chatterly”, senza copertina e monco delle prime pagine, pazienza. Poco dopo, un’agente (…”che scopro subito chiamarsi vigilatrice”) ritira i libri poiché al direttore è sfuggito un passaggio burocratico. “Ma sono libri della biblioteca interna, che male posso fare a leggerli?”, protesta la detenuta. “Ha detto che deve prima chiedere il permesso al pubblico ministero”. Li riconsegneranno qualche giorno dopo. Sono degli squarci che, a distanza oramai di tanti anni, fanno comprendere quanti passi ancora non siano stati compiuti in questo paese chiamato Italia, neppure nelle carceri. La vita del carcere è descritta a tratti con crudo realismo, a tratti con tenera partecipazione alle diverse situazioni e condizioni delle detenute. Sempre con una vena di nostalgia per le importanti cose  “inutili” non godute, per la famiglia che le manca (toccante il colloquio con i familiari). Ma anche con la rabbia di chi  non accetta il paradosso di un sistema (tutto italiano) che capovolge, stravolge o sommerge le verità. “Ma perché, cazzo, perché….Mi sto facendo la galera e rischio una condanna a vent’anni senza aver fatto niente a parte una rapina. Cosa altro cazzo vogliono da me?”. E’ la esasperazione di chi non vuole ridursi alla disperazione. Di una donna ingenua, magari sprovveduta, ma sicuramente coraggiosa. Di una donna sincera e generosa, che non può, non vuole dimenticare il passato.  “Sono passati trent’anni dal giorno della strage. Come ogni volta che passo dalla stazione di Bologna, sono ferma davanti alla lapide. [….]. Sono sovrappensiero ma una voce mi distoglie. ‘Mi scusi, posso farle una domanda?’. E’ una donna alle mie spalle. Mi giro e vedo una signora seduta in fondo alla sala. E’ senza valigia. ‘Mi dica’. ‘E’ un po’ che la osservo. Raramente vedo persone che si fermano a riflettere di fronte a questi nomi, la maggior parte dei viaggiatori non ci fa nemmeno caso’. ‘E’ colpa della memoria corta. Un malanno di cui gli italiani soffrono da secoli. Le cose brutte è meglio dimenticarle, si vive meglio il presente…’. ‘Quindi, lei non ha la memoria corta’. ‘No, non ce l’ho, ricordo i giorni della strage e credo che sia mio dovere non dimenticarmene mai’. ‘Perché?’. ‘C’è un filo che lega me a quella lapide. A quei tempi ero la <fidanzata> di chi poi è stato condannato per aver messo la bomba’. ‘Che cosa?’. Ora la sua voce è incrinata dalla rabbia. ‘Avevo ventidue anni, lui diciassette. Una amore disperato, […] Sa, signora, anche se non c’entro niente mi sento in colpa lo stesso”. ‘Vede’, mi dice a un certo punto, ‘ci vengo spesso alla stazione, a volte ci dormo anche. Sa perché? Perché quel maledetto 2 agosto del 1980 mio figlio è uscito di casa per venire qui. Aspettava un treno che lo avrebbe portato al mare, finalmente in vacanza, dopo gli ultimi esami all’Università. Non è più tornato. Il suo corpo non è mai stato identificato. Lui, ne sono certa, ha visto in faccia il terrorista che ha lasciato la valigia dove ora c’è quella rosa’“. La chiusa del romanzo è struggente. Non importa se vera o frutto della fantasia. Quel che conta è la testimonianza di una delle più tragiche pagine della storia italiana affidata al filo di una “memoria lunga”, potremmo dire di un percorso interiore dell’autrice. Attraverso il quale conduce il lettore sostenuta dalla ragione e dalla forza del sentimento. Con il sofferto orgoglio di poter “confessare” di aver vissuto.  

                                                                                                                                                        (Giorgio  Maulucci )

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