PAOLO SORRENTINO O DELL’ ETERNA GIOVINEZZA
Con “Youth” Paolo Sorrentino ha dimostrato che il cinema italiano è entrato in un’orbita “spaziale”, si è conquistato cioè uno spazio privilegiato, quello dei grandi classici e capolavori XXI sec. Non è questione di Oscar o di Palma d’oro, ma di più. Si tratta di un’opera completa, modernissima nello stile, nell’architettura; per l’ordito e la sceneggiatura. Una grande “commedia umana” di cui la vecchiaia è l’ultimo atto del viaggio esistenziale. Come un Balzac o un Dante avrebbero potuto immaginarla oggi. “La grande bellezza”, metaforicamente infernale, è stato il prologo immaginifico, l’antefatto del capolavoro; “Youth-La giovinezza”, metaforicamente purgatoriale e paradisiaco, la prosecuzione in crescendo. L’uno, all’insegna della “perdizione” ovvero della dannazione di una società opulenta in disfacimento, attraverso la lente deformante di un luogo emblematicamente e moralmente deputato (Roma); l’altro, all’insegna della redenzione, del riscatto e della resa dei conti di una vita attraverso la lente della vecchiaia, che della vita è la cartina di tornasole evidenziandola in ogni variegatura, nelle sue pieghe più intime e nevralgiche. Una riflessione dal respiro eticamente universale (l’etica della vecchiaia) scaturita dalla maturità personale ed artistica di Sorrentino. Il quale quanto a saggezza e visione della vita sembra essersi sintonizzato (inconsciamente) sul “De senectute” di Seneca, di cui “La giovinezza” potrebbe essere l’ideale risvolto o controluce. Lasciandosi emotivamente trasportare da un grande vecchio –personaggio e attore- di nome Michael Caine (ancor più del pur bravissimo ed efficacissimo H. Keitel) che dalla vecchiaia ha saputo distillare il succo di una rara saggezza e di un sottile umorismo; il segreto di una eterna giovinezza quale solo l’arte può dare: l’arte del vivere, del teatro, del cinema. Si continua a discutere se il film debba intendersi un inno alla vecchiaia o alla giovinezza; Sorrentino propende per questa e concordiamo. Lo stesso (falso) dilemma è stato sempre posto a proposito di Leopardi: mesto e pessimista o fiducioso verso la vita e il futuro? Sicuramente fiducioso e realista. De Sanctis scriveva che nessuno più di lui che ha cantato il dolore e l’infelicità dell’uomo, ti faceva amare la vita invogliandoti a sperare. In equivalenza, Sorrentino ti sa parlare della giovinezza soffermandosi sugli insulti della vecchiaia senza precludere, però, le prospettive per il futuro, rendendola perciò amabilmente sostenibile e preziosa. La vecchiaia, infatti, non è di certo una malattia ma, al contrario, la cura per una lunga giovinezza (sempre che salute lo consenta; si veda a proposito il pur bellissimo “Amour” di M. Hanecke, amaro e scuorante nonostante l’amore sconfinato e tenerissimo dei due anziani coniugi.). Essere vecchio, scrive Elias Canetti, “significa che posso abbracciare con lo sguardo la vita di molte persone che ho conosciuto. Significa che auguro a loro come a me una vita di trecento anni, per potere abbracciare ancora di più la loro vita, poiché ogni palmo in più che si conosce la rende più stupefacente, più problematica, più ricca di speranze, più penetrante e più inspiegabile”. La vecchiaia, insomma, per Sorrentino significa confessare di aver vissuto, guardare al passato con gli occhi rivolti al futuro “congelando” il presente in virtù di un’ironica e disincantata accettazione. Oppure staccare la spina purché con leggerezza anche se perversa (il suicido del vecchio regista-Keitel). “La leggerezza è una tentazione irresistibile” afferma il direttore d’orchestra-Caine, a suo modo una forma di perversione; evidentemente, aggiungiamo, anche erotica. Come dimostrano due anziani coniugi a pranzo nella sala di un hotel, assolutamente afasici, reciprocamente indifferenti; il marito, durante il desinare, viene improvvisamente e sonoramente schiaffeggiato dalla moglie; riappaiono in un parco dove copulano freneticamente e sonoramente, a ridosso d’un albero (!).
Protagonisti della grande commedia umana gli ottantenni Mick e Fred, grandi amici di vecchia data, un regista che vuole girare il suo ultimo film, un direttore d’orchestra e compositore che non vuole più dirigere. Due artisti, dunque, appartenenti a due mondi diversi, quello del cinema che traffica con la realtà, di cui l’icona Jane Fonda, anche lei vecchia, rappresenta senza mezzi termini il realismo e la vanità; quello della musica che afferisce al sublime esaltandolo, magistralmente evocato dalla magnifica vecchiaia di Caine. Tra la incomparabile bellezza della natura delle alpi svizzere (Wiesen) il vecchio direttore d’orchestra dirige le mucche ovvero il tintinnio dei campanacci, il cinguettio degli uccelli, il canto petulante delle cicale frammisto ai rumori della natura “che producono note alternate”(sic nel libro-sceneggiatura), creando un’armonia incredibile di suoni, colori, profumi, sensazioni, “una sinfonia della natura”(idem); potremmo dire una sorta di “pastorale” beethoveniana. Una sequenza a dir poco geniale per inventiva, senso estetico-musicale, percezione dell’armonia. Raffigurazione di una armoniosa vecchiaia sublimata da una musica udibile soltanto a fior d’anima. Che ti induce a riconciliazioni faticose ma salvifiche con le molte persone che si sono conosciute, amate o, purtroppo, per lungo tempo ignorate. Come nel caso dei figli, altro aspetto nevralgico del film, del problematico rapporto con i genitori spesso involontariamente colpevoli nei loro confronti. Una bambina, nella sua ingenuità, dice al direttore d’orchestra che non ha ragione di sentirsi in colpa poiché tutti i genitori lo sono, quindi, lui è nella regola e perciò assolto. Non e dello stesso parere la figlia. L’importante, secondo Sorrentino, è avere acquisita la consapevolezza di avere sbagliato: questo, almeno, rientra nel computo della buona vecchiaia intesa come prolungamento della giovinezza. Che vuol dire guardare al passato come ad un paese straniero dove tutto accade in maniera diversa e perciò da vivere diversamente; con l’animo di chi ha capito che bisogna continuare a vivere come allora. Con il vantaggio di essersi liberati della zavorra per proiettarsi verso il futuro.
Ci è sembrato che ogni momento del film, ogni battuta, dalla più seria alla più amabilmente ironica, confermi la regola nonchè il concetto e l’atteggiamento mentale del regista. In modo particolare, le sequenze (e l’interpretazione di M.Caine) relative alla elaborazione –quasi fosse un lutto- del rimpianto o rimorso provato dal musicista per non aver considerato la moglie come avrebbe meritato. Uno dei “capitoli” più struggenti ed intensi del film (e del libro) che penetra nell’animo dritto come una lama costringendo, chi più chi meno, ad un doloroso atto di contrizione. Il grande direttore ascolta, senza replicare, la figlia che lo accusa di essersi votato anima e corpo alla musica, alla carriera, sempre in giro per i concerti, mai disponibile al dialogo. Egli ora ne è perfettamente consapevole, sa di aver perso. Sempre immerso nel sublime dell’arte si è sfatto sfuggire, giorno dopo giorno, l’arte di amare senza rendersi conto delle conseguenze dell’amore negato (tanto per citare un altro bel film di Sorrentino). Dell’egoismo del genio o del grande artista stregato dall’arte per l’arte anziché attratto dall’arte del vivere. La figlia rincara la dose ricordandogli di non essere mai più andato a trovare la madre (ricoverata da anni in una clinica, oramai demente), di essere stato un padre anaffettivo, un estraneo che non ha dato nulla. Lui accusa il colpo al cuore, ma sa che è diventato vecchio per poter recuperare al meglio la sua giovinezza avendo acquisite la completezza e la consapevolezza sufficienti per non lasciarsi più vivere bensì per vivere; soprattutto per donarsi agli altri. Dopo avere rifiutato più volte ad un emissario della Regina, mandato appositamente da lui, l’invito di tornare a dirigere un concerto a Londra (per il compleanno della medesima) con una delle sue più celebri composizioni -le “Canzoni semplici”-, esasperato dichiara il motivo del suo rifiuto: quelle canzoni le cantava-interpretava sua moglie, che non potrà più cantarle e per questo motivo lui non vorrà più dirigerle con nessun’altra interprete. Alla fine, invece, sarà sul podio con una grande cantante (giapponese) che incanterà, insieme con lui, i reali e tutto il pubblico. Questo è il futuro, questa è la giovinezza sempre presente in noi, che bisogna saper custodire. Questa è la musica che, come ha scritto Stokchausen (citato da Sorrentino), “è tutto quel che si sente”. Non sarà un caso Il film è musicalmente orchestrato, nel vero senso del termine, pieno di musiche (strumentali e vocali), tutte originali, composte dall’eccellente David Lang (d’obbligo acquistare il CD delle stesse). Altra cosa è il cinema. Tanto è vero che l’amico regista non arriverà a girare il film per la inaspettata rinuncia della sua amica ed attrice (J. Fonda). Considerato fallito il sogno della sua vita; constatata l’incapacità di riconvertire in giovinezza la propria vecchiaia, decide di farla finita, con “leggerezza” (non possiamo non pensare a Monicelli o Lizzani).
Ai bellissimi scenari naturali si allineano quelli della vecchiaia che non perdona. Sequenze suggestive (felliniane?), che definiremmo corali per essere “animate” da un ideale coro di vecchi felici di esistere pur nella loro parziale abilità e/o mobilità. Scenari di una vecchiaia “galleggiante”(bagni termali e/o terapeutici) o tristemente “palleggiante”, come nel caso del personaggio sudamericano con badante -uno straordinario clone di Maradona- che si muove a fatica con girello o bastone, mostruosamente gonfio ed obeso. Ciononostante, tra il patetico e il grottesco, gioca con una palla da tennis (col piede sinistro), firma autografi a dei fan occasionali; un esempio di forza ostinata nel voler continuare ad allenarsi a vivere. Straordinario lo stile e la struttura del film, europea in senso lato, segno inconfondibile della totale sprovincializzazione del cinema italiano; della lezione di grande cinema, soprattutto ai tanti giovani improvvisati registi italiani che, purtroppo, non fanno onore al cinema ma sono foraggiati e sostenuti da una produzione e distribuzione insensate, esse sì perverse (nei criteri e nelle scelte). Nel corso della vicenda un giovane regista di ultima generazione, umile e assorto, conversa col direttore d’orchestra, suo mentore ideale (anziché il vecchio regista) interrogandosi sul mestiere e la capacità di essere un artista. Un giovane pensante né demolitore né entusiasta, che chiede semplicemente alla vita di poter essere vitale, creativo e produttivo. Un’incursione autobiografica? Sorrentino dimostra di essere un regista della nuova generazione che ha saputo far tesoro di una sapiente e colta “vecchiaia”, cinematografica e non: il film, a parte i costanti riferimenti a Fellini (vedi “La grande bellezza”, precedenti e quest’ultimo), è dedicato a Francesco Rosi. Perché “Canzone semplice”? chiede al direttore un bambino che la sta suonando/provando col violino, da lui sorpreso per caso; perché è facile da eseguire, ascoltare ed imparare, gli risponde, e intanto gli corregge la posizione del braccio e della mano sullo strumento. Quando il bambino lo incontrerà (in altra situazione), gli va incontro per dirgli che da quel giorno, grazie alla correzione, è andata benissimo col violino. Segno che i giovani serbano gratitudine per i propri maestri memori di quanto possono aver ricevuto; a buon diritto li citano o intelligentemente li imitano. Con “Youth” Sorrentino ci ha regalato uno dei suoi migliori film, forse il migliore in assoluto. Un film che affina i sentimenti, obbliga a scavare impietosamente dentro di te perché tu possa comprendere che, giunto alla vecchiaia, puoi non avere ancora appresa l’arte di essere veramente umano. La sceneggiatura in forma di romanzo ne è il degno corollario, dalla scrittura piana, intensa ed essenziale, aforistica, allusiva e simbolica. Musicalmente orchestrata, paragonabile ad una sinfonia in miniatura, meglio ad una “Serenata” (Eine kleine Nachtmusik-Una piccola musica notturna, Mozart); una serenata soffusa di una dolce malinconia stemperata da una sottile ironia e guizzi di allegria; un “notturno” della tarda giovinezza. Una scrittura-partitura semplice ed orecchiabile (come la “canzone” del direttore d’orchestra), giocata sul patetico e il sentimentale (in senso schilleriano). Che sottintende il senso problematico della contemporaneità e, probabilmente, dello stesso film: il passato, se lo lasci stare, non rimane passato. Si rischia, infatti, di annullare la prospettiva del presente-futuro oltre che la memoria storica.
“….Ascolta questa sovrapposizione scomposta di suoni: mucche, cicale, uccello. A questo punto, allora, Fred si concentra, chiude gli occhi. Con dolcezza, inizia a muovere una mano, proprio come un direttore d’orchestra e, come per incanto, alcuni campanacci si fermano. Ne restano degli altri, ma non danno più vita all’anarchia del rumore, bensì si srotolano secondo un ordine melodico. Con un altro gesto della mano, Fred ferma idealmente altri campanacci, ne rimangono solo due, che producono note alternate….”
(P. Sorrentino, La Giovinezza)
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