UN REQUIEM ITALIANO
J. Brahms compose “Ein Deutsches Requiem” (Un Requiem Tedesco, 1866-68, testi dalla Bibbia nella traduzione di Lutero); un requiem decisamente laico, di consolazione e memento per i vivi più che per i defunti; una meditazione esistenziale. Altrettanto dicasi per il “Berliner Requiem” (Requiem per Berlino) di Kurt Weill, composto nel 1928 in memoria della fine della prima guerra mondiale e, soprattutto, dell’assassinio di Rosa Luxemburg, lieder del movimento spartakista, uccisa da un’organizzazione paramilitare di destra (il corpo fu gettato in un canale e ritrovato diversi giorni dopo). “…Abbiamo tentato di dire quello che gli abitanti di una grande città sentono a proposito della morte ispirandoci a dei canti e/o iscrizioni funebri, targhe commemorative. Praticamente un Requiem profano”(K. Weill). I testi delle parti corali sono tratti dalle “Hauspostille”(Libro delle devozioni domestiche) di B. Brecht, di ispirazione luterana (i Lieder). Da qualche tempo ci capita di pensare sempre più spesso a questi due singolarissimi requiem come a due intense riflessioni sulla morte dell’etica e della morale, della pietas collettiva. Nel nostro caso -come per Weill- dell’anima di un paese che sembra aver perduto il senso dell’humanitas ed essere approdato alla “animalità” così del vivere come della politica. ”Di sera mi capita di nuovo tra le mani il Libro delle devozioni domestiche. Qui la letteratura tocca quel grado di disumanità che Marx rintraccia nel proletariato e insieme quella mancanza di vie di uscita che gli infonde speranza. La più parte delle poesie tratta il tema dello sfacelo, e la poesia segue sul fondo la società in rovina. La bellezza prende stanza sui rottami, i brandelli diventano oggetti squisiti. Il sublime si rotola nella polvere, l’assenza di sole viene salutata come liberatrice. Il poeta non è più solidale neppure con se stesso. Risus mortis. Ma non è cosa priva di efficacia” (B. Brecht, 1940). Il proletariato di riferimento, oggi, siamo noi, il ceto medio-povero. Siamo oramai sommersi da episodi squallidi e infamanti, da riti blasfemi quali il calcio e, per altro verso, Sanremo, che per almeno dieci giorni tra le anteprime, le serate, e il dopo festival oscura e deprime il paese. Dell’uno e dell’altro abbiamo più volte scritto che andrebbero soppressi, quanto meno ridimensionati per la salute pubblica e nazionale; il primo soprattutto per i pericoli inauditi negli stadi e lo spropositato giro d’affari delle società calcistiche, che si guardano bene dal rinunciare alla presenza degli ultras neonazisti o dall’annullare le partite. Un paese, il nostro, impantanato in assurdità e imbecillità politiche, notizie terrificanti e oltremodo preoccupanti provenienti dalla Libia; imbrattato dalle oscenità verbali vaganti sui face book e “meraviglie” tecnologiche similari, complici e istigatrici della perversione dilagante ovunque, in particolar modo in Italia, ridotta al di sotto di ogni civile decenza. E’ dal 2011 che la Libia è in fibrillazione, ma il nostro governo, nonostante la buona volontà di Renzi, ha guardato altrove, in primis all’effetto placebo degli ottanta euro e altre cazzate tra le quali la “buona scuola”, che continua a naufragare nel non senso. Dalle Università – quella storica di Roma, La Sapienza, massacrata dal fu rettore Prati, divenuta oramai il cimitero del sapere- alle scuole (pubbliche), che crollano non solo strutturalmente, ma anche sul piano della formazione per l’assenza di linee programmatiche, di equilibrio metodologico e valutativo (valutazione e misurazione) sia per gli alunni sia per i docenti. Una scuola, insomma, che cade a pezzi, che un governo “puerile” crede sia un gioco da ragazzi risanare. Un governo privo di solidità, che rimuove le minacce dell’Isis, il terrorismo con alfaniana mollezza ed impreparazione, compresa quella delle ragazzine” assai costumate e timorate di Dio (Boschi, Serracchiani e compagne), tanto per bene ma tanto imperfette e inadeguate come “emittenti” governative per affari molto seri. Che sulla Libia dice e disdice in ossequio alla retorica nazional-popolare. Che di fronte allo scempio degli hooligan olandesi a Roma (piazza di Spagna) si limita ad esigere le scuse –figurarsi!- e a passare sotto silenzio le dichiarazioni demenziali di questore e prefetto. Un paese dove le condizioni carcerarie sono abnormi, riguardo alle quali un sottosegretario (Costa?) del Ministero della Giustizia, intervistato qualche mese fa, in televisione, ha farfugliato di non esser a conoscenza di nulla, di non capire la ragione etc. Ci si rende conto? Non ci si deve, dunque, meravigliare che un agente qualunque “disonori la divisa” (per le belle locuzioni, in Italia, si va a nozze) inneggiando (sui “meravigliosi” attrezzi sopra accennati) all’impiccagione di un detenuto extracomunitario, auspicando la proliferazione di atti simili. Dove riemergono, solo ora, le “mignotterie” milionarie berlusconiane (doni e caseggiati alle Minetti e company) casualmente mescolate alle insopportabili castronerie grillesche; alle dichiarazioni del superdotato Salvini (in attributi e muscoli, che comunque fesso non è a parte le sue idee estreme quando non confuse o rifuse); al giubilo di Renzi per avere liquidato l’articolo 18 ma, a quanto pare, non ancora la Camusso (aspettiamo trepidanti il momento), per avere perciò spiccato il volo. E se si affiancasse ai tre maschiotti che hanno sbancato a Sanremo con la canzone omonima? Alla prossima visita ad Obama, in tal caso, potrebbero cantargliela in quattro! C’è poco da ridere. L’Italia piange, anzi si dispera. Per questo non resta altro che intonare per lei un Requiem, con un grande corale di ravvedimento e penitenza. Rivolto espressamente a tutti i politici e, se ancora hanno un barlume di resipiscenza, ai corrotti affinché si cospargano il capo di cenere ed ammettano di avere assassinato un popolo che fu grande. Per Roma, invece, è davvero giunto il tempo di intonare il De Profundis. “….Dalla veglia del mattino sino a notte / speri Israele [Roma] nel Signore / perché presso il Signore v’è misericordia / ….ed egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Giorgio Maulucci
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