“LA SCUOLA E’ BELLA”: BENIGNI PER L’ ISTRUZIONE PUBBLICA E TELEVISIVA
Benigni ha fatto ancora centro. Pressoché esaurita la vena registica, ha capito che può darsi ai grandi classici, i quali sa leggere con intelligenza ed astuzia. Ha avuto il merito di divulgare Dante (ma la strada l’aveva egregiamente aperta Vittorio Sermonti con le sue letture pubbliche e radiofoniche), poi la Costituzione, ora i Dieci Comandamenti. Dovrebbe essere meno verboso e divagante, questo sì, per scongiurare il rischio di sconfinare nella retorica. Gradiremmo che rinunciasse all’ingresso saltabeccante e clownesco in palcoscenico, sempre lo stesso, uno stereotipo più che un biglietto da visita; perfino il grande Chaplin, ad un certo punto della sua carriera, ha dismesso i panni del vagabondo Charlot. Fermo restando l’acutezza delle sue battute, della “commedia all’improvviso” di cui è decisamente maestro; la indubbia presa sul pubblico televisivo di cui la televisione dovrebbe tener conto moltiplicando l’effetto Benigni. E’ chiaro che non può pretendersi che egli vi si installi come gli Inzinna (quello dei pacchi), i Conti, la Clerici, Fazio e via dicendo. Ma sostituire certe presenze insopportabili e usurate (vedi il mellifluo baronetto Fazio-Pierino e la patetica Littizietto-maestrina) con qualcosa di istruttivo, almeno una volta la settimana, significherebbe rinnovare il miracolo della storica trasmissione “Non è mai troppo tardi”, benemerita in fatto di alfabetizzazione (in senso lato) di un paese che la devastante “scuola” del modello televisivo berlusconiano ha ridotto a stracci. A. Manzi, il glorioso maestro di quella trasmissione, puntava sulla alfabetizzazione; Benigni e simili contribuirebbero sicuramente ad una salutevole rialfabetizzazione –morale e culturale- di cui si avverte sempre più urgentemente il bisogno. Si consideri che cosa significherebbe per un paese degradato, umiliato ed umiliante come il nostro se la gente comune fosse indotta a “giocare” con Dante, Ariosto, Shakespeare o i Comandamenti, i Vangeli etc. Gli italiani si convincerebbero che scherzando si impara purché ci sia l’intenzione e l’intelligenza; di quanta verità e realtà ci sia nei libri scritti da geni insuperabili, primo fra tutti il Libro dei libri come è stato dimostrato dagli indici di ascolto. Che un attore-intrattenitore, quando è grande e colto come Benigni, può far ridere, commuovere e pensare parlando pure di Dio come fosse la pubblicità della Conad: non c’è gioco a premio o talk-show o Sanremo che regga il confronto. Capirebbero inoltre che per un tale servizio val la pena pagare le tasse canone compreso. Benigni ha l’arte di insegnare, del vero maestro di scuola che ti avvia alla lettura e alla comprensione mediante una lezione frontale e nel contempo interattiva; resa viva da intercalari, esempi e paragoni semplici ma preganti, tipo quelli danteschi (nella Commedia), inframmezzati al punto giusto di un discorso o ragionamento per rafforzarlo o alleggerirlo. E già che si continua a parlare della “buona scuola” -per esperienza riteniamo, purtroppo, ancora a vuoto e senza attendibili prospettive- quanto potrebbero imparare da lui non pochi insegnanti per i quali la scuola significa fare della letteratura ovvero leggere/spiegare Dante, Leopardi, Pirandello e altri secondo standard ancora ottocenteschi, inchiodandoli al loro secolo. E’ scontato, infatti, vantarne l’attualità strumentalizzando concetti od espressioni oramai celebri del tipo “ahi serva Italia…non donna di provincie, ma bordello” (Dante); che la vita o la natura è avara di gioie, dunque vai col pessimismo (Leopardi) etc. Dirlo e continuare a relegarli e pensarli al/nel passato significa evocare dei fantasmi. Si tratta, invece, di “far vedere”, rendere vive le parole e i sentimenti, palpabile la coincidenza dell’impulso creativo originario con i suoi effetti inalterati nel presente. Come fa Benigni, sorridendo e castigando, visualizzando il negativo o il positivo che i testi contengono o implicano; entrando nel problema sventrandolo, se necessario, coll’ironia o il sarcasmo, ma anche con profonda umanità. O semplicemente con una battuta fulminante, ciò che spesso dovrebbe saper fare anche un insegnante per tener desto o spiazzare l’uditorio. Certo, lui è un attore e conosce bene l’arte di recitare ed interpretare, la funzione del teatro, che poi è analoga a quella della scuola: istruttiva e divulgativa. Entrambi equivalgono ad uno dei momenti assembleari più idonei al dibattito e alla critica, dove il pubblico è uno spettatore o ascoltatore organico, attivamente partecipe. Si dirà che a teatro come a scuola (in classe) si va per ascoltare. Ma mentre il primo prevede spazi alternativi (aperti, come alle origini), la seconda si continua a concepire esclusivamente come luogo circoscritto e spesso castrante (la classe, i voti con i meno-meno, i più e/o il mezzo, altre incongruenze). Se ipoteticamente Benigni fosse proposto come ministro dell’istruzione, sicuramente la scuola cambierebbe o per lo meno uscirebbe dal suo prolungato letargo. La prima, coraggiosa mossa sarebbe di pagare, finalmente, in misura adeguata gli insegnanti per la loro impagabile opera; rimuovere, per contrappasso, quelli che non operano a dovere. Ce ne sono, purtroppo, sia per le resistenze o avversione ad un radicale svecchiamento per una congenita pigrizia intellettuale o malformazione culturale, sia per la inadeguatezza del ruolo. Rimuoverli significa destinarli ad impieghi dove possano creare meno danni di quanti, invece, creino ai giovani, soprattutto sul versante formativo e della crescita umana. La lezione di Benigni sul Comandamento degli “atti impuri” è stata esemplare (e non solo questa), soprattutto come critica ad un sistema ed una convenzione clerico-repressivi. Analoga critica può rivolgersi al sistema scuola e al bando dei testi-autori “impuri”, dicasi Pasolini, Porta, Bellezza, Brecht e prima ancora Catullo, Marziale Ovidio. Sottoposti a censura quando azzardati da qualche insegnante (ovviamente “impuro”), sottaciuti vuoi per pregiudizio (moralistico o ideologico), vuoi perché lesivi del comune senso del pudore. Non si dimentichi il recente, inverosimile caso di presunta oscenità sollevato da un romanzo (sull’amore omosessuale) di Melania Mazzucco proposto da un docente agli alunni di una scuola romana. Tuttavia da non molti anni qualche progresso è stato fatto almeno per Pasolini (mai proposto finora nelle tracce del tema di maturità), grazie sempre alla buona volontà (e conoscenza) dei docenti, non certo dell’istituzione la quale lascia, teoricamente, ampia libertà in materia, di fatto limitata. Stesso discorso per la politica di cui ancora oggi, a scuola, non si parla con naturalezza come si dovrebbe: è fuori tema o fuori testo. Se fosse in cattedra Benigni annienterebbe i sindacati, la Camusso o Grillo leggendo Dante, Machiavelli, Lenin, Gobetti, ma anche Leopardi. Lui sì che rinnoverebbe i programmi e farebbe della scuola un’istituzione “assembleare” permanente davvero buona e bella. Se soltanto, dopo il lodevole film di Martone, mettesse mano e testa a Leopardi! Quell’incorreggibile pessimista (?!) uscirebbe dall’esilio (scolastico) cui è stato condannato per troppi anni per tornare a vivere tra i comuni mortali, parlando la loro stessa lingua. Ci si conceda una battuta (da passatista): la cosiddetta buona scuola è destinata a rimanere ancora nella mente di Giovanni Gentile che, fosse in vita, riderebbe delle pessime sorti e regressive di essa. Non parliamo poi dei fraintendimenti e altre castronerie di quel tal Faraone ministeriale circa l’apprendistato politico e le occupazioni.
Giorgio Maulucci
Tags: 10 comandamenti, Alessandro Cozzolino, Giorgio Maulucci, Roberto Benigni
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