L’ATTIMO FATALE DI ROBIN WILLIAMS
Quando muore una persona/personaggio famoso, qualche ora dopo la notizia tutti vengono a conoscenza fin nei minimi dettagli di vita, opere e miracoli di lui. Diamo dunque per già acquisite le informazioni sulla carriera, i film e, purtroppo, la inaccettabile morte di Robin Williams. E’ stato detto di lui che fu geniale. Noi saremmo più cauti ad evitare di scivolare nel retorico. Geniale è stato Chaplin, senza offesa per lui Fellini o Kubrick nel senso che il genio supera comunque i confini del prevedibile. R. Williams è stato indubbiamente un attore di talento. “Un grande attore non è né un pianoforte, né un ‘arpa, né un clavicembalo, né un violino, né un violoncello; non ha un accordo che gli sia proprio , ma assume l’accordo e il tono adatti alla sua parte, e sa conformarsi a tutte. Ho un alto concetto del talento di un grande attore: è un uomo raro, raro quanto e forse più del grande poeta”. Così D.Diderot (Paradosso dell’attore), il cui pensiero dedichiamo sentitamente a Williams, attore multiforme, dai più diversi registri voce compresa (doppiatori a parte). Capace di incarnare quel fantastico paradosso che è, appunto, un grande attore. Il paradosso,infatti, di per sé incredibile ed inesprimibile, lo porta a misurarsi con se stesso e quindi a superarsi. Come nella esilarante, commovente interpretazione di “Mrs. Doubtfire”, la storia di un padre separato (in realtà messo alla porta dalla moglie) che si trasforma in governante pur di continuare a vivere accanto ai figli. Trasformismo, paradosso e talento da vendere. A conferma che “L’animo di un grande attore è stato formato da quell’elemento sottile con cui il nostro filosofo [Epicuro] riempiva lo spazio, che non è né freddo né caldo, né pesante né leggero; che non assume nessuna forma specifica perché, suscettibile di averle tutte allo stesso modo, non ne conserva nessuna” (Diderot). Questo è il paradosso, dietro il quale si possono leggere vicende personali dello stesso Williams. Nel cinema abbiamo visto molti attori vestire alla grande i panni femminili, un esempio per tutti: T.Curtis e J. Lemmon in “A qualcuno piace caldo” (B. Wilder). Eppure nell’interpretazione en travesti di Williams –Mrs Doubtfire può intravvedersi l’ansia di non aver saputo afferrare la felicità di essere padre; di recuperare il bene perduto, magari l’incapacità di amare o amare in modo sbagliato. Insomma, considerato che divorziò più volte e padre di più figli, c’è abbastanza di un vissuto personale. Che tinge di toni a tratti un po’ amari o malinconici la comicità del personaggio, facendo trapelare una sorta di “sentimento del contrario” (Pirandello). Che un attore poi si destreggi egregiamente nei ruoli drammatici e in quelli comici non è questione di genialità, senz’altro di talento e perspicacia. Per noi Robert Williams rimane quello de “L’attimo fuggente” (1989) -gli valse l’Oscar- per l’inevitabile coinvolgimento personale essendo stato chi scrive un insegnante di lettere (liceo), per di più riconosciuto come un innovatore. Quell’interpretazione del professor Keating -da applauso- ci colpì soprattutto per le sottili sfumature psicologiche, emotive ed anche narcisistiche, una peculiarità dell’insegnamento. E pur apprezzando le buone intenzioni della sceneggiatura (da Oscar, di Tom Schulman) nell’evidenziare la necessità ed esigenza di svecchiare metodi troppo tradizionali o superati mediante una provvidenziale dissacrazione, non ci è sfuggito il sottile lavoro dell’attore e quanto egli vi abbia messo del suo. Entrare nel personaggio d’accordo, ma qui c’è una componente in più. L’aver studiato arte drammatica e aver fatto teatro; avere avuto un professore di Storia straordinario, che l’ha fatto innamorare della materia e dello studio, al quale pare si sia ispirato per la sua interpretazione; credere nel potere salvifico e formativo dell’arte e della cultura. E’ chiaro che queste componenti finiscono col diventare carne viva nella sua interpretazione del giovane ed entusiasta professore; che riesce ad instaurare un rapporto vitale, empatico e simpatico con gli allievi in virtù di una autentica passione. La poesia come il teatro è vita e così anche la scuola e l’insegnamento. Pertanto l’attore pur calibrando perfettamente realtà e finzione, tende a far prevalere la prima. L’espressione, la gestualità, infatti, sono propri di chi ha veramente esperito l’arte di insegnare. Il professore cita e legge W. Whitman – “Oh capitano, mio capitano”, riferito a Lincoln-, poeta trasgressivo e “proibito” quanto può esserlo Orazio, il poeta del carpe diem, dell’attimo fuggente, appunto, sul quale egli tiene una affascinante lezione. Il titolo originario del film è “Dead Poets Society” (La setta dei poeti estinti) di cui il giovane professore fa parte (lo scopre un allievo indagando nelle schede-curriculum degli insegnanti). I poeti estinti, ovviamente, sono i più moderni se intelligentemente proposti e letti “al presente”. Egli sa che il teatro è una delle leve per rivitalizzare la scuola, per uscire dal teorico e dagli schematismi. A tal fine viene allestita una rappresentazione del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare da cui ha origine, involontariamente, il dramma del film ( per questioni di primato dei giovani attori). L’insegnante affascina gli allievi, li esorta a vivere la poesia, a comprenderne l’essenza e la forza evocatrice e rivoluzionaria, anche eversiva. Una scuola attestata su programmi standard non può accettare ciò e quindi il preside rimuove il nuovo Socrate corruttore dei giovani. Ma loro hanno capito e assimilato la importante lezione di vita. Quando fin dagli anni Settanta proponevamo agli alunni Pasolini, il Catullo non dotto (solitamente censurato a scuola), la visione di film intesa come lezione, le trasferte (a Roma) a teatro, tutto ciò risultava folle e indecoroso. I presidi richiamavano all’ordine il professore, che non mollava. I tempi hanno reso giustizia a lui e al valore aggiunto allo studio e alla formazione di cui gli allievi hanno fatto tesoro. All’uscita del film evidentemente questo era nell’aria, almeno nelle scuole europee benché la nostra scuola abbia sempre vantato di essere la migliore delle scuole. Sarà pur vero, ma non nel senso in cui lo sceneggiatore e l’interprete del film hanno esaurientemente messo a fuoco. Williams, dunque, è oltremodo credibile non solo come attore, ma anche come un uomo che ha sentito e fatto suoi quei problemi. E’ proprio in questa interpretazione che, osservata a posteriori, possiamo intravvedere l’ansia di vivere e, in embrione, il germe del male di vivere che l’avrebbe ucciso. Alcol, droga e quant’altro ne sono gli inevitabili derivati. Nel suo caso la poesia, la bellezza non l’hanno salvato. Quando girò il film probabilmente era convinto del contrario, ma forse non aveva calcolato le ricadute perverse di esse, specie quando si ripensa al tempo felice in uno stato di miseria o delusione. Non è da escludersi, infatti, che sia stato il “viale del tramonto” ad indurlo al gesto estremo. Ma a noi piace ricordarlo nel suo film più vero. Perché lo connota sotto l’aspetto più umano e scoperto, in certo senso emblematico: l’attimo è quello in cui noi vediamo il rovescio non tanto del mondo quanto della ruvida tela ricamata dalla vita stessa. Quanto in quell’attimo fuggente ci sia di impenetrabile e folgorante fino a poterne morire. Lo ricorderemo come gli studenti del film lo ricorderanno: un “capitano” coraggioso e di grande talento. Anche per il prezzo della sua scelta, un gesto di ribellione misto a risentimento. “Io vivo per dominare la vita non per esserne schiavo” dice convinto il professor Keating ai suoi studenti.
Giorgio Maulucci
Tags: Alessandro Cozzolino, Giorgio Maulucci, Robin Williams
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