LEOPARDI, CHI ERA COSTUI?
Abbiamo letto sempre con interesse e condivisione, sul Corriere della Sera, gli articoli-interventi di Ernesto Galli della Loggia; non ci aspettavamo di essere delusi dall’insigne editorialista, professore e studioso di Scienze Politiche. Ci riferiamo al suo intervento (9 aprile) umorale, estremo, forse un po’ “gruppettaro” in occasione dell’uscita de “Il giovane favoloso” di Mario Martone in Francia nonché sulla interpretazione, a suo dire, fasulla o contraffatta che il regista ha data di Leopardi, quindi, della cattiva immagine dell’Italia consegnata ai cugini francesi. Discettando sulla vera “identità” poetico-letteraria del grande recanatese da (saccente) critico/studioso della letteratura dell’ultim’ora. Avanzando il dubbio, in forma di domanda retorica, se Martone abbia mai sentito parlare, per caso, di “un tal De Sanctis”. Inducendo noi, di rimando, a dubitare che sia lui, invece, a non aver compreso né (il vero) Leopardi né De Sanctis. Il suo disappunto -più precisamente l’ingiustificato livore- è squisitamente ideologico, per meglio dire sciovinista non perdonando a Martone, a quel che abbiamo capito, la posizione antirisorgimentale a partire da “Noi credevamo”. Prescindendo (non ricordando?) dal “Risorgimento senza eroi” di P. Gobetti; dall’opposizione ed ostracismo dei comunisti e democristiani al film di Visconti “Senso”, al quale fu negato clamorosamente il Leone d’oro (Venezia, 1954) per aver dissacrato il glorioso Risorgimento e il patriottismo italiano. E’ pur vero che nell’articolo egli ricorda “Il Gattopardo” e lo stesso “Senso” come esempi alti di film “storicamente” egregi e perciò assolutamente attendibili, non paragonabili, presumiamo nella sostanza, al “Giovane favoloso”. Personalmente abbiamo condiviso (recensito) entusiasticamente l’operazione e la lettura compiuta dal regista, rigorose e assai pertinenti all’opera e alla personalità del Leopardi, in linea peraltro con il taglio critico e l’insegnamento impartito ai giovani allievi nella nostra lunga esperienza di scuola. Mettendoli sempre in guardia dal considerare Leopardi un languido romantico “amico delle nuvole”, come suona la ben nota canzone “Romantica” (di Rascel), citata dal grande germanista L. Mittner nella sua Storia della Letteratura Tedesca a distinguere il vero dal falso o presunto Romanticismo. Che magari della Loggia rimpiange dando a Martone dell’ignorante per non aver letto De Sanctis ! Il quale pur nella sua appassionata ed acuta analisi, non può che consegnarci un poeta fondamentalmente romantico quale storicamente (e anagraficamente) Leopardi è. E come lui l’uomo e l’autore della ineguagliabile Storia della Letteratura italiana (fu pubblicata nel 1871). Lasciandone, però, sottintendere lo straordinario spessore umano e moderno della sua poesia, il suo pessimismo costruttivo: nessuno come Leopardi, scrive F. De Sanctis, proprio in virtù della noia, del dolore ed infelicità cosmiche, “ti fa amare la vita”. Poesia romantica senz’altro ma, aggiungiamo, di stampo tedesco. l’ “Infinito”, infatti, altro non è che la versione italiana del lied di Goethe “Sehnsucht”; lo stesso dicasi del “pastore errante/viandante” metafora del poeta (Wandrers Nachtlied-Canto notturno del viandante; Wandrers Sturmlied-Canto del viandante nella tempesta; Schafers Klagelied-Lamento del pastore), della luna (An Luna- Alla Luna) etc. Un Romanticismo diverso da quello italiano (rispettabilissimo), che punta al sublime e, quindi, alla sublimazione dei sentimenti più che all’esternazione, al “sentimentale” più che al “patetico”. Luterano più che cattolico (i prodromi del Romanticismo tedesco vanno individuati nel diuturno, indefesso esercizio morale e spirituale di interiorizzazione e sublimazione cui l’individuo, in Germania, è stato addestrato fin dai tempi M. Lutero). E’ appena il caso di ricordare che un altro grande critico contemporaneo, Luigi Russo, paragonò lo “Infinito” ad una preghiera, paragone irricevibile per la critica leopardiana emancipata dal crocianesimo e, quindi, più aggiornata, di cui Martone mostra di essere adeguatamente documentato (De Sanctis, Luporini, Sapegno, Binni, Timpanaro, Citati e altri). Conosciamo le idee e posizioni di Galli della Loggia in fatto di cristianità, cattolicesimo e altro; lo consideriamo un laico eppure ci è parso di capire che per lui il “giovane favoloso” risulterebbe inopportunamente ateo. Leopardi non si pone il problema di Dio, quindi, è agnostico; uno spirito libero, autenticamente laico. Così lo rap-presenta Martone rilanciandolo come uno dei più grandi poeti, intellettuali e pensatori laici del XIX sec., profeticamente proiettato verso il XX e XXI secolo. Nel film è un giovane precocemente adulto (come lo fu nella vita), un “giovane Werther” nutrito, cresciuto e vissuto sotto l’egida della “critica della ragione”, quella “pura” e quella “pratica”, e anche del “giudizio”. Un giovane che sognava, sì, ma ad occhi aperti e con i piedi ben piantati sulla terra. Impolitico, sì, ma che ha fatto politica più di tanti militanti, risorgimentali e non, con le armi critiche e la critica delle armi. Che ad un tale livello la scuola italiana -almeno fino agli anni ’70 e oltre, fatte salve le eccezioni- raramente ha proposto: intendiamo nella sua incredibile “prosaicità” (a parte le imbecillità sulla gobba, il pessimismo e idiozie varie, né Zibaldone, né epistolario e documenti vari) privilegiandone, invece, l’aspetto lirico. Senza approfondire, però, la ragione del suo lirismo: il canto (Leopardi intitolerà “Canti” il libro dei suoi versi) ovvero il lied tedesco (Goethe). La valenza musicale della poesia (la parola risolta in canto), introdotta con straordinaria modernità e novità (rispetto a Dante) nella nostra letteratura dal Petrarca (la lirica d’amore). Leopardi, infatti, ha letteralmente ristrutturato (rivoluzionato) daccapo la poesia italiana in virtù di una inimitabile ricostruzione linguistico-musicale, di una sorta di restauro mediante un felicissimo “rimpasto” goetiano e petrarchesco. Martone ha avuto il merito di avere almeno osato di andare oltre la siepe, di superare cioè il Leopardi convenzionale sfoderandolo, ci sia consentito dire, nella sua fisionomia più credibile. Liberandolo, finalmente, dai lacci dell’idillismo per suggerire ai non addetti ai lavori come tornare a leggere gli “Idilli” (né grandi né piccoli, per favore!): con la semplicità della leggerezza, passando obbligatoriamente per la prosa. Del resto, quei Canti sono la sintesi a priori e a posteriori di un pensiero denso ed intenso, di un vissuto problematico, doloroso e “ingegnoso”; di un percorso intellettuale ed interiore confluito nella “storia di un’anima” (Sapegno). Un’anima, una sensibilità che ha determinato la crescita smisurata, inarrestabile di una individualità fuori dalla norma. Di una volontà disumana ed una caparbietà indicibile fino alla risoluta affermazione del principio di contraddizione: negare la gioia per poterla godere al massimo grado (un concetto analogo è espresso dal Grande Inquisitore nei “Karamazov” di Dostoevskij); maledire la vita o la natura per poterla amare ed afferrare a piene mani (De Sanctis). E’ questa la giusta, colta lettura di Martone, che torniamo a ringraziare per aver fornito col suo Leopardi, per davvero, un esempio di “buona scuola” (di cui peraltro della Loggia ha intelligentemente scritto). Dalla quale, purtroppo, paventiamo di essere ancora lontani –non solo per/con Leopardi- checché ne dica il “giovane ampolloso” (Renzi), fin troppo ottimista sia nella volontà sia nella ragione (!).
P.S. Al posto di Martone ci saremmo astenuti dal replicare (Corriere della Sera, 12 aprile). Tutt’al più, da buon napoletano, avrebbe potuto limitarsi ad in inviare un ironico messaggio eduardiano : “…chillo, ‘o mobile, è troppo bello”!
Giorgio Maulucci
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