UN PICCIONE VOLA SUL CINEMA “SPAZIALE” del XXI sec.
I riferimenti obbligati per l’incredibile, bellissimo film dello svedese Roy Andersson, “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”, sono filosofici –nihilismo, esistenzialismo, cinismo-, lo humour nero, il surrealismo; segnatamente, il teatro dell’assurdo, lo straniamento brechtiano. Ogni personaggio suggerisce un “concetto” emblematico dell’esistenza: la morte, il dolore, la beffa, la delusione, l’amore facile e difficile, la violenza, il degrado, la sopraffazione. Due di essi richiamano da vicino Vladimiro ed Estragone di “Aspettando Godot” (Beckett), una sorta di clown pieni di tristezza, involontariamente comici; dei falliti di professione che si lasciano vivere. Nella vita sono rappresentanti di oggetti-giocattoli per “far ridere”, per portare allegria: solo a vederli sembrano due fantasmi o morti in vacanza, deprimenti e sconcertanti. Due presenze metafisiche, senza peso né spessore; il filo rosso che attraversa e collega i diversi “quadri” che compongono il film; storie bislacche diverse tra loro eppure accomunate dal non senso. Apologhi della/sulla apatia, indifferenza o noia che, di fatto, sottintendono i paradossi, l’imponderabile della vita; il catastrofico Nulla (il Fato) contro cui è inutile ribellarsi, che induce o costringe all’autodistruzione, all’afasia. Ogni personaggio compie gesti apparentemente inutili, da perfetto idiota. In realtà si capisce che tutti fingono di non capire, di ignorare la propria condizione di vinti o sopravvissuti proprio per combatterla e superarla. Ripetono monotonamente parole, frasi col disperato intento di colmare il silenzio assordante dell’esistenza rifugiandosi nel grottesco. Come nel bellissimo apologo del bar con “la zoppa”, una specie di entraineuse che si concede con un bacio ai soldati in un clima storico (diciamo il nazismo) surreale e brechtianamente straniato; con voce roca canta un motivo sulla falsa riga del (brechtiano) “Horst Wessel lied”, a ritmo di marcetta. In un altro quadro-apologo, una parata militare paranazista avanza in strada, un cavallo con in groppa un alto ufficiale/dittatore –metastorico- irrompe in un caffè introdotto da due sottoposti, che intimano ai pochi avventori e al barista di farsi da parte, fanno da predellini (con la schiena) a sua eccellenza che smonta, seminano il terrore. Emblematiche “apparizioni”, che alludono ad avvenimenti terribili, di ordinaria o pura follia (la guerra, il nazismo) come fossero favole edificanti. Con una sarcastica comicità che ha dell’inverosimile, tale da rendere ancor più drammatico e paradossale l’inquietante peso dell’esistenza, il colore neutro dell’uomo contemporaneo. Complici un linguaggio essenziale ed uno stile asciutto, densi di significati e significanti che implicano l’impotenza e l’alienazione cui ognuno di noi, specie oggi, è condannato. Che denotano quanto possa essere insignificante la morte in un mondo in cui oramai tutto, morte compresa, passa inosservato. Non a caso il prologo del film propone tre “esempi”, del tipo spot pubblicitari con didascalie (morte 1, morte 2, morte 3), su come si possa morire da imbecilli in circostanze assolutamente banali, ai limiti della comicità, che a dir poco sono agghiaccianti. Il messaggio –la tesi del regista- è che l’apparente insignificanza delle situazioni nasconde le insidie e gli insulti che la vita riserva o lancia ai comuni mortali, senza scampo. Se il teatro brechtiano denuncia l’ingiustizia sociale, i cosiddetti “sette peccati capitali dei piccolo borghesi” incitando alla rivoluzione, il teatro dell’assurdo, beckettiano e non, registra (denuncia in senso inverso) la in-esistenza dei poveri diavoli, attesta il rifiuto della logica apparente. Il disarmante bisogno di ricostruire il tessuto dei rapporti umani demolito dal falso progresso e da una illusoria felicità (i “Giorni felici” di Beckett). Andersson ha costruito un film “geometrico”, un teorema teatrale dell’assurdo con interessanti interferenze psicoanalitiche sui comportamenti e condizionamenti di un’umanità alla deriva. Individuando il male di vivere contemporaneo nel disperante vuoto esistenziale in cui nulla c’è eppure ci si illude ci sia il mondo intero. Affidandosi alla dimensione e al linguaggio del teatro inteso come “lezione”, ancor più come spazio mentale dove il tempo non è un flusso reale bensì, a seconda dei casi, irreale o surreale. Il teatro, dunque, come il luogo deputato del logos dove la parola, il discorso, il dialogo sono l’enunciato di un teorema da dimostrare. La ragione del teatro, specie di quello contemporaneo, vuole essere una forma di critica storica, “un luogo preposto a notomizzare i fatti, verificare le ragioni dei collassi e dei processi degenerativi”: condividiamo appieno questo concetto di Stefano Massini, autore dello straordinario libro-testo teatrale “Lehman trilogy”, messo in scena da Luca Ronconi, l’ultima sua opera, colossale, magnifica pietra miliare del teatro del futuro. Nonostante la differenza di genere (cinema, teatro), avvertiamo una consonanza tra questo spettacolo e il film per lo snodarsi della storia/vicenda su piani parallelamente incrociati, suddivisi in “capitoli” interdipendenti, ciascuno con una propria conclusione, che nell’insieme si unificano in una trama coesa e desolante. Sorprendente la somiglianza dello “spazio scenico” del film con quello teatrale voluto da Ronconi, ai limiti dell’asettico, essenziale e rigoroso, con pochissimi elementi di scena più che altro simbolici, anch’esso spazio mentale e meta temporale, a significare una morte senza soluzione di continuità. Questa, riteniamo, sembra essere la riflessione sull’esistenza di Andersson, la morale della favola. Compitata da una bambina la quale, nel corso di una recita scolastica, chiamata sul palco, dice di aver preparato una “poesia”. Esitando, procedendo frammentariamente, racconta di un piccione posato sul ramo di un albero, che si guarda sospettoso intorno, che pensa ma non dice nulla ….. Gli animali come i bambini non si interrogano sul senso della vita per il semplice fatto che non sospettano minimamente che possa/debba fregarti, a meno che non si abbia tanta fortuna. I personaggi del film, infatti, sono degli sfigati che il regista, però, non considera perdenti. In questo risiede la sua originalità e il suo pregio rispetto a tanti film di successo, che non esulano comunque dal già visto. Lo spettacolo di Ronconi, affermandosi ed imponendosi come autentico teatro contemporaneo e del futuro, ci risarcisce della non più sostenibile ordinarietà, del vecchiume di tanto teatro in circolazione, azzerandolo; altrettanto dicasi per il cinema a proposito del film di Andersson. Si tratta di opere di autori proiettate in “orbite spaziali”, praticamente di un nuovo secolo. Nonostante il Leone d’oro al “Piccione” all’ultima Mostra di Venezia, e quello dell’anno scorso a “Winter sleep” (del regista turco Ceylan), assolutamente poetici e d’avanguardia, i due film sono spariti dalle sale romane (una, due) dopo neanche due settimane di programmazione. Non che il Leone d’oro, come ogni premio, sia una garanzia assoluta, ma quando è assegnato a ragion veduta ad un film di inconfutabile valore artistico, la distribuzione dovrebbe essere più sensibile e propensa a sostenerlo e pubblicizzarlo. Fermo restando l’alto gradimento del vasto pubblico per prodotti di medio livello, sicuramente più commerciali, di pseudo registi di dubbio mestiere (ultimo della serie, Castellitto) o scontati/omologati (Comencini e folta compagnia). Si dia a un pubblico del genere almeno il tempo di “arrivarci”!
Giorgio Maulucci
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